di Rowan Scarborough - Washington Times.
23 ottobre 2013
La strage dei SEALs anti Bin Laden, un inside job
di Rowan Scarborough - Washington Times.
Con
nota di Pino Cabras in coda all'articolo.
I
Familiari delle vittime dell’incidente aereo afghano del Team 6 dei
Navy SEALs sospettano che si sia trattato di un “inside job”
Molte
domande perseguitano i familiari delle vittime di “Extortion 17”,
la missione aviotrasportata in Afghanistan che ha sofferto il numero
più alto di vittime USA verificatosi nello stesso giorno durante
tutta la guerra contro il terrorismo.
I
materiali di inchiesta di cui il Washington Times è entrato
in possesso dimostrano che la zona di atterraggio dell’elicottero
dei SEAL non era stata correttamente controllata per verificare la
presenza di possibili minacce, né protetta da fuoco di copertura,
mentre certi comandanti militari hanno criticato sia la missione in
quanto eccessivamente precipitosa, sia l’utilizzo di un elicottero
convenzionale del tipo Chinook, non adatto per azioni di
infiltrazione di truppe in zone pericolose.
Ogni
giorno, Charlie Strange, il padre di uno dei 30 soldati
americani morti il 6 agosto del 2011 nel lampo dell’esplosione di
una granata RPG, si chiede se suo figlio Michael sia stato incastrato
da qualcuno all’interno del Governo afghano, qualcuno che volesse
vendicarsi dei killer di Osama bin Laden, del Team 6 dei SEAL.
“Qualcuno
ha fatto una soffiata ai Taliban”, ha detto Strange, il cui figlio,
che lavorava come tecnico delle comunicazioni cifrate per la Marina
degli Stati Uniti, aveva intercettato alcune comunicazioni. “Loro
sapevano. Qualcuno li aveva avvertiti. C’erano degli uomini in una
torre. Altri uomini lungo la linea dei cespugli. Stavano seduti, ad
aspettare. E hanno mandato i nostri ragazzi proprio lì nel mezzo”.
Il
figlio di Doug Hamburger, Patrick, un sergente dell’Esercito, è
morto insieme agli altri quando il Chinook CH-47D si apprestava ad
atterrare in un punto a meno di 140 metri da dove combattenti taliban
armati li stavano osservando da una torretta.
Hamburger
si chiede perché il comando della missione abbia mandato suo figlio
nella valle del Tangi verso un’area di atterraggio pericolosa
utilizzando un elicottero da trasporto invece di un mezzo adatto ad
operazioni speciali. Gli elicotteri modificati per questo tipo di
operazioni, come l’MH-47 e l’MH-60 Black Hawk, di cui lo stesso
Team 6 dei SEAL aveva utilizzato la versione “stealth” per
condurre l’operazione di cattura e uccisione di Osama bin Laden,
sono pilotati da ufficiali specialisti addestrati specificamente alle
rapidissime manovre evasive che si utilizzano per mantenere la
copertura ed evitare di essere individuati dal nemico.
“Quando
devi volare in una vallata, e ti trovi in mezzo alle colline, e voli
tra le case costruite lungo tutta la valle, allora sei in una
missione estremamente pericolosa”, ha detto Hamburger. “Gli
elicotteri MH, quelli di ultima generazione, hanno radar in grado di
individuare un missile o una granata RPG in arrivo. Sono più veloci,
sono più agili. C’erano tutte le ragioni del mondo per utilizzare
quel tipo di elicottero quella notte”.
Sith
Douangdara, il cui figlio ventiseienne John era uno specialista
di Marina delle truppe cinofile, ha detto di avere moltissime domande
ancora prive di risposta.
“Io
voglio sapere perché così tanti uomini delle forze armate USA, e
specialmente dei SEAL, erano tutti imbarcati su un solo elicottero”,
ha detto. “Io voglio sapere perché la scatola nera
dell’elicottero non è stata trovata. Io voglio sapere molte
cose”.
Non
tutte le famiglie delle vittime credono che le conclusioni del
rapporto investigativo stilato dal Brigadiere Generale Jeffrey Colt
abbiano dato risposta a tutte le domande. Il Generale Colt, che in
seguito è stato promosso a Maggiore Generale, ha detto ai comandanti
militari coinvolti nell’inchiesta che il suo compito non
era quello di trovare dei colpevoli e che il suo rapporto non
intendeva puntare il dito su singole
persone o decisioni. 1
“Io
voglio che le persone siano tenute a rispondere delle proprie
azioni”, ha detto Strange, un ex operaio edile che oggi lavora al
tavolo di Blackjack in un Casinò a Philadelphia.
Un
portavoce del Comando Centrale Militare USA, ha rifiutato di
rispondere alle domande dei familiari delle vittime, e ha rimandato i
giornalisti alle conclusioni del rapporto del Generale Colt.
Il
coinvolgimento del Congresso degli Stati Uniti
Più
di due anni dopo i fatti, alcune risposte potrebbero venir fuori.
Il
Comitato per il controllo e la riforma del Governo, guidato
dal deputato repubblicano dello stato della California, Darrell E.
Issa, sta conducendo un’indagine, dopo aver incontrato alcune
famiglie delle vittime.
Larry
Klayman, che guida l’organizzazione Freedom Watch, ha
presentato un ricorso legale contro il Pentagono, l’Aeronautica,
l’Esercito e la Marina degli Stati Uniti, presso la Corte
Distrettuale di Columbia. Egli chiede che un giudice ordini ai
militari di rendere disponibile un insieme di documenti ai sensi del
Freedom of Information Act (la legge USA sull'accesso dei
cittadini alle informazioni di emanazione pubblica, NdT).
Klayman ha affermato che il Dipartimento della Difesa ha respinto
tutte le sue richieste scritte di accesso agli atti, e che in seguito
al successivo ricorso ai giudici, lo scorso mese Freedom Watch ha
visto accolta la propria richiesta, e il Governo è stato costretto a
rendere disponibili gli atti dell’inchiesta.
Per
la prima volta, Larry Klayman ha consentito al Washington Times
di consultare i documenti dell’indagine militare resi finalmente
disponibili ai familiari delle vittime dopo due anni dai fatti.
“Le
famiglie dei nostri eroi caduti, che io mi onoro di rappresentare,
esigono che questa tragedia si concluda”, ha detto Klayman. “Ci
sono molte domande ancora prive di risposta, e la spiegazione data
dai militari, fino ad oggi, circa le cause dell’incidente, non sta
in piedi”.
Klayman
ha detto che le famiglie delle vittime vogliono che siano cambiate le
direttive sulle modalità di combattimento troppo restrittive che
hanno impedito ai piloti dell’elicottero USA di rispondere al fuoco
dei taliban.
“Le
famiglie vogliono anche che le direttive sul combattimento siano
cambiate, come atto di testimonianza e in onore dei loro figli”, ha
detto Klayman. “Quando la nostra nazione entra in battaglia, deve
essere per vincere la battaglia, non per conquistare il cuore e la
mente degli estremisti islamici e della popolazione civile musulmana
che è usata da questi come scudo umano”.
Klayman
vuole anche sapere la vera identità dei soldati afghani che erano a
bordo del velivolo, e perché la scatola nera dell’elicottero,
sparita dopo un fortissimo temporale, non sia stata più trovata,
nonostante fosse dotata di un sistema di localizzazione.
“Vogliamo
essere sicuri che i nostri eroi caduti siano rispettati, che ci siano
date le risposte che cerchiamo”, ha detto.
A
proposito di un possibile tradimento, Klayman afferma: “non stiamo
dicendo che sia successo, ma è una eventualità che va esplorata,
perché sempre più Americani vengono uccisi ad opera degli Afghani”.
Persino
tra il personale militare c’è chi ha messo in discussione
l’operazione.
Il
pilota navigatore della cannoniera volante AC-130 che per tre ore ha
sorvolato la valle del Tangi dopo l’accaduto, ha espresso già nel
2011 quel che i familiari delle vittime stanno pensando oggi.
“Una
delle altre cose di cui abbiamo parlato – del genere, cosa ti sta
venendo in mente, signore – è a proposito del fatto che, vede, per
tre ore siamo stati su a fare buchi nel cielo”, ha dichiarato
l’ufficiale al team del Generale Colt. “Hai questi Apache che
girano attorno, e c’è un sacco di rumore e, di fatto, l’intera
valle sa che c’è qualcosa che sta succedendo in questa area.
Allora, se vuoi fare un’infiltrazione su X o Y, è chiaro, avere
l’elemento sorpresa all’inizio dell’operazione è una buona
cosa, ma quando sono tre ore che stiamo lì sopra, e la festa è
iniziata, allora portarsi anche un altro velivolo come quello,
signore, potrebbe non essere la decisione tatticamente più sensata”.
La
missione
Dopo
che il rapporto del Generale Colt fu reso pubblico, nel settembre del
2011, i militari organizzarono un incontro con i parenti delle
vittime il 12 di ottobre, a Little Creek, in Virginia, vicino alla
base del “NAVAL SPECIAL WARFARE DEVELOPMENT GROUP”, meglio noto
come il Team 6 dei SEAL. L’incidente ha portato via la vita a 17
SEAL e 5 membri del gruppo operazioni speciali, facendo di quel
giorno il più funesto nell’intera storia delle operazioni speciali
navali degli Stati Uniti.
La
lista dei passeggeri dell’elicottero includeva cinque soldati
dell’esercito, tre avieri, sette soldati afghani ed un interprete
afghano. Tutti e 38 gli uomini a bordo sono morti. Ventidue di loro,
tra cui il sottufficiale Strange, sono stati sbalzati fuori dal
velivolo. Gli altri sono tutti morti nell’esplosione.
La
camera mortuaria presso la base aerea di Dover, nel Delaware, ha
confermato che tutti sono morti nel giro di pochi secondi. Il
Generale Colt ha detto che “si è trattato con tutta probabilità
di morti rapide”.
Il
Presidente Obama si è recato a Dover per portare omaggio ai caduti e
consolare i familiari.
“Suo
figlio ha cambiato l’America”, ha detto Obama, secondo quanto
riportato da Strange. “Io ho afferrato il Presidente dalle spalle e
ho detto ‘io non ho bisogno di sapere di mio figlio. Io ho bisogno
di sapere cosa è accaduto”.
L’intera
nazione si è chiamata in raccoglimento mentre trenta funerali
avevano luogo in tutto il Paese, molti dei quali nell’America delle
piccole comunità cittadine.
Il
pubblico è rimasto inchiodato alle immagini della cerimonia funebre
tenutasi a Rockford, nell’Iowa, per il sottufficiale di prima
classe Jon Tumilson, dei SEAL. Il suo amato labrador, Occhio di
falco, è rimasto accanto al feretro, leale fino alla fine, mentre
più di 50 SEAL assistevano alla cerimonia.
L’inchiesta
militare
Il Generale Colt aveva
l’esperienza necessaria per condurre le indagini: è un veterano
delle guerre in Iraq ed Afghanistan, ed un pilota di elicotteri di
carriera, che ha prestato servizio nel famoso 160° Reggimento
Operazioni Speciali. Oggi è il vice-comandante di Fort Bragg, in
Nord Carolina.
Per
l’incontro con le famiglie, il 12 ottobre, il Generale ha esposto
le sue principali conclusioni, poi il suo staff ha distribuito dei
DVD con i dati relativi all’inchiesta.
Ma
le domande che i parenti delle vittime hanno oggi, si sono
materializzate solo dopo che essi hanno iniziato a sfogliare le oltre
1300 pagine di mappe, schemi, note di riunione e trascrizioni di
interviste condotte ai comandanti della task force del Team 6 ed ai
pianificatori dell’operazione culminata nel disastro.
La
tragedia si è sviluppata alle 10.55 della sera del 5 agosto 2011,
quando 47 uomini dei Rangers hanno preso posto su due CH-47 Chinook
che dovevano condurre un volo di perlustrazione e monitoraggio della
valle del Tangi. La missione faceva parte di una intensa campagna
finalizzata all’uccisione o alla cattura di leader taliban, un
obiettivo che ha richiesto un enorme sforzo alla flotta degli
elicotteri e che ha lasciato i reparti a corto di elicotteri adatti
per le operazioni speciali.
Quella
notte, l’obiettivo era Qari Tahir, identificato come uno dei
massimi leader dell’area critica a sud di Kabul, da dove il nemico
è libero di muoversi attraverso le frontiere con il Pakistan.
I
Rangers avevano perquisito una casa che si riteneva ospitasse Tahir.
I nemici – i militari li chiamano “mocciosi” – si sono dati
alla fuga da una porta di servizio. Il comandante del reparto di
Rangers allora ha preso una decisione importante: ha chiesto alla
task force delle operazioni specali di mandare una forza di reazione
immediata per aiutare i SEALS a catturare i “mocciosi”, sebbene
non si potesse sapere se Tahir fosse tra loro. È poi venuto fuori
che Tahir in quel momento si trovava in un altro villaggio.
Il
comando ha schierato la forza di reazione in 50 minuti. Si sono
imbarcati su un CH-47 convenzionale, contrassegnato “Extortion 17”,
per il breve volo condotto da un esperto militare della Guardia
Nazionale ed un più giovane riservista.
A
quel punto, la situazione era diventata molto più pericolosa di
quanto non fosse tre ore prima, al momento dell’azione di
infiltrazione dei Rangers. Essi avevano potuto godere dell’effetto
sorpresa, Extortion 17 no. Stava volando nel fuoco nemico, mentre il
rumore del volo degli elicotteri Apache, dei droni, e dell’AC-130
stava avvisando chiunque si trovasse nella valle che era in corso un
attacco.
Extortion
17 decollò alle 2.22, si fermò in quota per diversi minuti, poi si
mosse annunciando “meno un minuto” alle 2.38. In quel momento,
rallentò a 58 miglia, scese a non più di centocinquanta piedi,
avvicinandosi al punto di atterraggio circondato da alberi e capanne
in mattoni di fango, illuminato dallo scintillio di un rivelatore a
infrarossi puntato dalla cannoniera volante AC-130.
Nel
buio, in quel momento, i taliban hanno lanciato due o tre granate a
razzo RPG, del tipo anti-uomo OG-7 di fabbricazione sovietica, molto
precise entro 150 metri. Chi ha sparato aveva trovato un buon punto
di fuoco, ben all’interno del raggio di portata dell’arma.
Una
delle granate a razzo ha tagliato una delle pale del rotore, mandando
il Chinook in un violento avvitamento, fino a schiantarsi al suolo,
in fiamme. Nel giro di 30 minuti, nelle varie reti di comunicazione
cominciarono a vedersi i messaggi con cui i taliban si vantavano
dell’abbattimento.
L’ufficio
stampa del Comando di Kabul, in prima battuta, raccontò ai
giornalisti che Extortion 17 era impegnato in una missione di
salvataggio. Ma i Rangers non avevano bisogno di essere salvati.
Avevano messo in sicurezza il complesso ed erano a caccia dei
taliban.
“Una
forza di reazione è mandata in un’azione di recupero, tipicamente,
se i nostri ragazzi sono nei guai e tu gli mandi qualcuno a tirarli
fuori”, ha detto Hamburger. “Tu non mandi una forza di reazione
per fermare un gruppo di nemici in fuga che scappano via da un
villaggio, specie in una valle pericolosa e con un accesso rischioso
come quello.”
Il
rapporto del Generale Colt conferma la posizione di Hamburger. È
raro che il Comando Operazioni Speciali in Afghanistan impieghi una
forza di reazione, ancor più raro che un team di élite come il Team
6 dei SEAL sia utilizzato per un incarico come quello di inseguire un
gruppo di talebani in fuga.
Uno
degli investigatori della squadra di Colt ha chiesto all’ufficiale
addetto alle operazioni, “quanto spesso vi capita di impegnare la
forza di reazione sul campo?”.
“Raramente,
Signore”, ha risposto. “E raro assistere ad un’azione
pianificata come questa”.
Analogamente,
un ufficiale della brigata di aviazione che aveva fornito Extortion
17 ha detto che non era a conoscenza di alcuna precedente missione di
recupero inviata in azioni di caccia ai guerriglieri taliban.
“Non
è mai accaduto, Signore”, ha detto al Generale Colt.
L’ufficiale
ha detto che Extortion 17 era già decollato prima che egli avesse la
possibilità di parlare con il comandante della brigata. C’erano
poche informazioni circa la condizione dell’area di atterraggio,
tutto ciò che si sapeva era che si trovava a due miglia e mezzo dal
complesso in cui operavano i Rangers.
“Io
penso che il comandante abbia chiamato direttamente per cercare di
avere più informazioni” ha dichiarato l’ufficiale al Generale
Colt.
L’ufficiale
ha poi riconosciuto che la brigata non aveva mai fatto una
valutazione accurata dei possibili rischi per la missione di
Extortion 17.
“Per
quanto immediata è stata la missione, non abbiamo approfondito
quanto avremmo dovuto per capire quali erano le minacce in
quell’area”, ha detto.
Tradimento?
Alcuni
tra i familiari ritengono che i soldati americani siano stati traditi
dal Governo afghano, e che qualcuno abbia dato un’imbeccata ai
taliban.
Una
delle ragioni che essi citano è che i taliban avevano iniziato a
infiltrare dei propri agenti all’interno delle forze di sicurezza,
allo scopo di uccidere cittadini o soldati americani, una pratica
nota come “assassinii verdi o blu”.
Essi
sostengono che il Team 6 dei SEAL era un bersaglio designato, a causa
del fatto che dall’amministrazione Obama erano filtrate varie
indiscrezioni verso i media circa il ruolo del team nella cattura e
nell’uccisione di Osama bin Laden, avvenuta tre mesi prima.
Alcuni
ufficiali hanno detto al team di investigatori del Generale Colt che
i taliban avevano dislocato cento combattenti nella valle del Tangi
al solo scopo di abbattere veivoli americani. Un velivolo con 17 SEAL
a bordo sarebbe stata una preda molto ambita.
Ancora,
c’è il fatto che un gruppo di combattenti taliban, equipaggiati
con radio trasmittenti portatili, aveva lasciato la propria posizione
per raccogliersi attorno al punto di atterraggio previsto per
Extortion 17, una zona di atterraggio mai usata prima fino ad allora
dagli Americani.
Due
guerriglieri taliban armati con lanciagranate RPG si erano appena
appostati in un’alta torretta a meno di centotrenta metri dalla
zona di atterraggio del Chinook.
Un
paragrafo del rapporto Colt ha suscitato l’attenzione dei parenti
delle vittime. In quel passaggio del rapporto, il team di
investigatori stava interrogando gli ufficiali in comando della
“Joint Special Operations Task Force” che aveva organizzato la
missione. Ad uno di essi è stato chiesto dell’elenco del personale
imbarcato sull’elicottero.
“Si,
Signore”, ha risposto uno dei comandanti. “E io sono certo che
lei sappia, ad oggi, che l’elenco era preciso, fatta eccezione per
il personale [CENSURATO] a bordo. Così il [CENSURATO], quei nomi
erano non corretti – tutti e sette i nomi non erano quelli
corretti. E io non posso parlare delle ragioni che stanno dietro a
ciò”.
I
“sette”, dicono i familiari, sono soldati afghani. Il rapporto di
Colt non fa riferimento al motivo per cui l’elenco del personale in
volo era sbagliato. La censura militare ha oscurato ogni riferimento
agli Afghani. Alcuni tra i familiari delle vittime ritengono che il
comando della missione, all’ultimo momento, sia stato costretto a
sostituire sette soldati afghani, i cui nomi sono rimasti
nell’elenco, con altri sette.
Il
comando dell’esercito afghano era a conoscenza della missione,
perché ogni operazione deve essere preventivamente approvata da un
gruppo di coordinamento operativo composto da americani e da membri
delle forze della sicurezza nazionale afghana.
Un
portavoce del Comando Centrale non ha voluto commentare la questione.
“La
mia teoria è che siano stati fregati dai militari afghani”, ha
detto Hamburger. “Sono veramente convinto che questo sia il motivo
per cui gli Afghani che dovevano essere a bordo siano stati
sostituiti all’ultimo momento. Ecco perché non erano sull’elenco.
Io penso che i nostri militari abbiano scoperto qualcosa e che non
vogliano dire la verità alle famiglie. Non posso esserne certo, ma
se metti tutto quanto insieme a proposito della missione di quella
notte, e viene fuori che c’è qualcosa che non quadra, questo è
veramente qualcosa che ti mette inquietudine”.
Il
Generale Colt ha scritto che ritiene che i taliban erano pronti a far
fuoco per una semplice ragione: la missione dei Rangers che era in
corso da ben tre ore, e gli aerei continuamente in volo sull’area,
avevano allertato ogni forza nemica nell’aera sul fatto che altri
elicotteri potessero essere in volo verso quella zona.
“L’arrivo
da subito [degli elicotteri Apache] dei Rangers presso entrambe le
[CENSURATO] zone di atterraggio, assieme ai primi combattimenti
dinamici con elementi nemici, ha probabilmente fornito ai combattenti
taliban un allerta preventivo circa la possibilità che altri
elicotteri potessero essere in volo verso l’area”, ha scritto.
Il
velivolo sbagliato
I
familiari delle vittime ritengono anche che i SEAL siano decollati
con il velivolo sbagliato.
Il
CH-47D, un elicottero convenzionale guidato da piloti e copiloti
comuni, è un ottimo mezzo per il trasporto di truppe e materiali
verso aree non situate in zona di combattimento.
Ma
infiltrare commando in un’area calda avrebbe dovuto richiedere
l’impiego di mezzi ben più sofisticati, come gli MH-47 e MH-60
guidati da piloti abilitati ad operazioni speciali, sostengono i
familiari delle vittime.
Si
tratta di mezzi che possono volare velocemente e a bassa quota,
mentre il CH-47D per raggiungere il punto di atterraggio deve
scendere da altezze significative, il che lo rende un bersaglio
facile.
Un
comandante di un team di operazioni speciali ha detto al Generale
Colt, a proposito dei CH-47D, che “il livello di fiducia nel mezzo
è basso, perché non volano, non planano e non atterrano come un
velivolo adatto alle operazioni speciali. Faranno pure, si sa, un
atterraggio piano. O se si ha una squadra diversa che si esercita su
diverse zone, faranno l'atterraggio su cima”.
L’ufficiale
ha affermato che gli elicotteri convenzionali rendono i commando meno
efficaci.
“È
dura”, ha dichiarato al Generale Colt. “Intendo dire, e io ho
dato loro le istruzioni per operare comunque al meglio. E loro erano
in grado di eseguirle. Ma ciò comunque limitava la nostra efficacia.
Limitava le nostre opzioni e la nostra flessibilità tattica. La
nostra capacità di manovra era chiaramente limitata, nel senso di
dove potevamo andare, e quanto velocemente potevamo arrivarci”.
A
differenza degli elicotteri di tipo MH, il CH-47D non era dotato di
alcun sistema di allarme difensivo contro le granate RPG.
Il
rapporto del Generale Colt mostra che gli elicotteri MH hanno un
miglior ruolo di impiego, almeno nei 45 giorni precedenti
l’abbattimento.
Il
6 giugno, due CH-47 che si apprestavano a sbarcare delle truppe nella
valle del Tangi hanno dovuto interrompere la missione dopo aver
incontrato fuoco nemico di granate RPG. Più tardi, quella stessa
notte, un elicottero MH-47G ha incontrato fuoco nemico mentre
sbarcava truppe nella stessa zona di atterraggio senza riportare
alcun danno.
È
rimarchevole che il comando abbia utilizzato elicotteri MH, e non CH,
per inviare sul luogo dell’abbattimento la squadra di salvataggio e
il gruppo per la rimozione delle armi, e che i 47 Rangers impiegati
nell'azione di caccia ai guerriglieri taliban siano stati recuperati
utilizzando elicotteri del tipo utilizzato nelle missioni speciali.
Hamburger
ha detto che gli è stato riferito che non c’erano velivoli MH
disponibili, quando Extortion 17 è stato scelto per la sua ultima
missione.
Il
rapporto del Generale Colt afferma che i sistemi aerei di controllo e
sorveglianza disponibili, probabilmente dei droni di tipo “Predator”,
sono rimasti fissi sui guerriglieri in fuga e non sono stati
dirottati alla zona di atterraggio di Extortion 17 per verificare la
possibile presenza di combattenti nemici.
Ma
Hamburger ha anche riferito che un soldato gli avrebbe detto di aver
potuto osservare la ripresa video di un Predator che ha mostrato
l’abbattimento dell’elicottero. Se ciò fosse vero, il padre
esige che il Comando Centrale mostri questo video.
Hamburger
sostiene che un altro motivo della sua azione è ottenere maggiore
informazioni circa le direttive sulle modalità di combattimento per
i soldati statunitensi. Vuole che siano cambiate.
I
mitraglieri non possono fare fuoco su Afghani in fuga senza aver
prima avuto conferma del fatto che i fuggitivi stiano portando armi,
neanche nel caso in cui sia del tutto evidente che si tratti di
combattenti taliban.
Regole
di questo genere hanno impedito, quella notte, che gli Apache e
l’AC-130 in volo potessero fare fuoco. Il comando delle operazioni
speciali a Kabul voleva autorizzare che si facesse fuoco sui taliban
in fuga, “ma non è stato in grado di determinare se il gruppo di
taliban fosse armato”, scrive Colt nel suo rapporto. Il comandante
a quel punto ha ordinato alla sfortunata pattuglia di SEAL di aiutare
i Rangers a catturare ogni fuggitivo. Se ci fossero state diverse
regole di ingaggio, quella missione avrebbe potuto non essere
necessaria.
Alcuni
momenti dopo l’abbattimento, il pilota di un Apache ha individuato
il punto da cui era stata lanciata la granata RPG, ma non ha potuto
far fuoco.
“A
causa delle regole di ingaggio, e delle direttive tattiche, non ho
potuto far fuoco alla casa dove pensavo si trovasse il nemico, così
ho mirato direttamente al lato ovest dell’edificio”, ha riferito
il pilota al Generale Colt.
Hamburger
ha anche affermato che la missione non ha seguito il consueto
protocollo operativo. Il volo non era dotato di una scorta “dedicata”
di Apache, né della protezione della cannoniera volante AC-130, che
avrebbe potuto fornire più occhi ad osservare la zona di
atterraggio. Il comando si basava sull’aereo che era stato mandato
a supporto del team di Rangers, ma il suo equipaggio aveva due
compiti, e aveva deciso di dare più attenzione al primo di essi,
ossia sorvegliare il taliban in fuga.
Sembra
che ci sia una certa contraddizione tra quanto sostiene il rapporto
di 27 pagine del Generale Colt e quanto i piloti degli Apache hanno
riferito durante le indagini.
Gli
elicotteri AH-64 Apache sono utilizzati come “guardie del corpo”
per i Chinook durante una tipica operazione di infiltrazione di
truppe, scortando i Chinook fino al punto di atterraggio e tenendo
sotto mira eventuali nemici sul terreno.
Ma
Extortion 17 non aveva Apache di scorta.
Il
rapporto del Generale Colt sostiene che il comando dell’operazione
non ha disposto che i due Apache a supporto dei Rangers, dotati di
sistemi di visione e mira notturna, si muovessero a copertura della
zona di atterraggio di Extortion 17. Un ufficiale dei Rangers sul
campo si è assunto autonomamente la responsabilità di dare
quell’ordine, riferisce il rapporto.
Ma
le trascrizioni degli interrogatori mostrano una storia più
complessa, e danno un quadro inquietante per le famiglie delle
vittime.
Nel
corso del suo interrogatorio, il Generale Colt stesso ha detto al
comandante dell’operazione: “Lasci che le dia un feedback. I
ragazzi dell’Apache, loro veramente pensavano che il loro compito
primario fosse quello di continuare a monitorare quegli uomini.
Quello era il loro focus. E per quanto riguarda il livello di
attenzione dedicato alla zona di atterraggio, quello era un incarico
secondario per loro”.
Il
pilota di uno dei due Apache, chiamati Gun 1 e Gun 2, incaricato
della protezione dei Rangers, ha detto al Generale Colt che non hanno
mai interrotto il loro supporto tattico ai Rangers per controllare
l’area di atterraggio del Chinhook fino ad appena tre minuti prima
dell’ora prevista per l’atterraggio.
“Onestamente,
Signore, io non credo che nessuno abbia veramente controllato l’area
di atterraggio”, ha detto il pilota di Gun 1. “Voglio dire, in
qualunque momento avessimo individuato i taliban, o i Rangers
avessero trovato armi, noi dovevamo – almeno così è come la
vedevo io in quel momento – essere pronti a far fuoco se fosse
stato confermato che erano armati, ma noi dovevamo confermare
l’identificazione, prima di tutto”.
“Così,
non avevamo neppure iniziato, ancora, a controllare l’area di
atterraggio”, perché in quel momento c’era un livello di
minaccia superiore a est, con i taliban”, ha detto il pilota. “A
proposito della chiamata dei ‘meno tre minuti’, è quando Gun 2
ha iniziato a dare un’occhiata all’area di atterraggio. Direi che
quello è il primo momento in cui abbiamo veramente iniziato a
controllare quell’area”.
La
pianificazione dell’invio di una forza di reazione rapida si
presume sia fatta in relazione alla missione principale. In questo
caso non è stato così. La pianificazione è iniziata poco dopo
l’una di notte, ed è durata meno di un’ora.
Il
comandante dell’AC-130 ha riferito che nessuno, realmente, ha
coordinato le operazioni definendo chiaramente chi dovesse
controllare i taliban in fuga nella parte orientale della valle, e
chi avrebbe dovuto guardare ad ovest per coprire Extortion 17.
“Quel
coordinamento probabilmente avrebbe potuto funzionare meglio, e, io
credo, non sono sicuro, ci e sembrato che l’intero piano di attacco
alla zona fosse approssimativo, io credo”, ha detto. “Io non so
se questo sia il caso, ma è un genere di cosa che io pensavo avrebbe
potuto essere condotta un po’ meglio”.
L’operatore
dei sensori dell’AC 130 ha dichiarato: “Semplicemente non ci
piaceva l’idea di portare un altro elicottero in zona, specialmente
senza un team a terra che mettesse in sicurezza l’area di
atterraggio per loro”.
Valutazioni
Secondo
I familiari delle vittime, la missione era nata male fin dall’inizio:
utilizzare un velivolo inadeguato, volarci verso una zona di
atterraggio non verificata e non sorvegliata, infestata di taliban, e
mettere su una missione un piano di reazione nel giro di minuti per
un’azione che avrebbe dovuto essersi conclusa alcune ore prima.
Il
Times ha chiesto l’opinione di un ufficiale dei corpi
speciali attualmente in servizio, e che può parlare solo in
anonimato e confidenzialmente.
“In
questo caso, il CH-47 è stato utilizzato in modo completamente
inappropriato, date le sue caratteristiche, e il risultato è stata
la morte di tutti quelli che erano a bordo”, ha detto l’ufficiale.
“Le
forze di primo livello devono essere impiegate dietro una accurata
pianificazione”, ha aggiunto. “Il costo e il tempo necessario per
il loro addestramento comporta che utilizzarle in un modo così
inadeguato, come forza di reazione rapida, e in questo contesto, pone
risorse critiche a un livello di rischio assolutamente eccessivo,
specialmente se utilizzati con questa concentrazione di truppe in una
missione del tutto non critica”.
Il
Team 6 dei SEAL e la Delta Force dell’esercito sono considerate le
risorse di primo livello, le più specializzate unità d’elite
impiegate nel controterrorismo.
Quando
abbiamo chiesto come un talebano, di notte, abbia potuto colpire il
CH-47, ha aggiunto, “non mi sono mai chiesto come abbia potuto fare
a colpirlo, non esiste il buio assoluto, e il CH-47 è un bersaglio
enorme e rumoroso”.
Il
consulente legale del Generale Colt ha iniziato una sessione di
interviste con le truppe di terra dicendo: “Ovviamente, qui abbiamo
un’inchiesta del Comando Centrale affidata a un ufficiale Generale
per essere certi che abbiamo collegato tutti i punti e che il nostro
rapporto sia accurato e completo, e che non sia rimesso in
discussione dai soliti gruppetti di civili”
Un
mese dopo il giorno più tragico della guerra, gli Stati Uniti hanno
avuto una specie di vendetta. Il comando NATO a Kabul ha annunciato
l’uccisione di Tahir con un preciso attacco aereo, mentre era in
compagnia di un altro terrorista.
Traduzione per Megachip a cura di
Giampiero Obiso e Pino Cabras.
NOTA
DI PINO CABRAS:
Abbiamo
già pubblicato articoli su questo oscuro avvenimento sin dal
2011:
Già
dopo tre mesi dai fatti di Abbottabad, durante i quali si eliminò
dalla storia l'icona del supercattivo Osama Bin Laden, erano già
morti 17 su 25 componenti del Team Six dei Navy SEALs. Ad oggi, un
incidente dopo l'altro, siamo già a 23
morti su 25.
La storia comincia a non quadrare non solo per noi.
L'articolo
che avete letto è stato pubblicato da un quotidiano conservatore
USA, il Washington Times. Estremamente conservatore è anche
l'approccio dei familiari delle vittime, molti dei quali vivono
nell'America profonda delle piccole comunità e delle grandi chiese
cristianiste che punteggiano la Bible Belt.
Come
avete modo di leggere, per loro non è in discussione la Guerra
infinita contro nemici incomprensibili, i taliban che – come
quarant'anni fa i vietcong – stranamente osano sparare a chi occupa
il loro territorio.
Lungi
dal mettere in discussione la guerra, i familiari del Team Six
eliminato si lamentano che le direttive sulle modalità di
combattimento proteggono troppo gli afghani: per loro, si dovrebbe
poter sparare al mimimo sospetto, a costo di colpire innocenti. Non
si pongono il problema di aggravare così un quadro già odioso di
attacchi indiscriminati su assembramenti sospetti, come i tanti
banchetti nuziali spazzati via dall'aeronautica USA in Afghanistan e
in Pakistan.
I
parenti dei Navy SEALs sacrificati pagano dunque il prezzo di
un'ideologia che non permette loro di aprire gli occhi sulla guerra.
Ma l'ideologia non arriva a impedire loro di vedere i fatti. E i
fatti, nella strage del team, sono semplici: quella storia non sta in piedi, le inchieste
sono state dei vergognosi insabbiamenti, tutto il potere USA –
politici, militari, grandi media - ha lavorato sin dall'inizio per
depistare e ingannare. Dall'11/9 in poi, questa palude di inganni
pervade la costituzione materiale di USA e satelliti, e le Commissioni d'inchiesta sono Commissioni d'insabbiamento, tanto da dichiararlo, quando spiegano di non voler accertare colpe.
1NdT:
Si tratta della stessa identica formula adottata dalle Commissioni
d'inchiesta statunitensi sui fatti dell'11/9.
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20 ottobre 2013
Contro la legge sul negazionismo
di Aldo Giannuli.
La SISSCO è la Società italiana per lo studio della Storia Contemporanea. Penso sia urgente intervenire su questa ennesima legge orripilante sul negazionismo e devo dire che all’interno della Società si è subito sviluppato un dibattito di cui renderò conto ai lettori.
Di nuovo la legge sul negazionismo: una lettera aperta agli amici della SISSCO.
Cari amici,
senza che si sia data alcuna pubblicità
ai lavori precedenti (e, tantomeno, senza consultare la nostra
associazione che riunisce la quasi totalità dei contemporaneisti
italiani), il Senato sta approvando la legge che istituisce il reato di
negazionismo. Se ne parlò 6 anni fa (con il ddl Mastella) e la cosa
dette luogo ad un vivacissimo dibattito, sul sito della Sissco, nel
quale prevalsero nettamente i pareri negativi.
Più fattivamente, i colleghi francesi
guidati da Pierre Nora dettero vita all’associazione “Libertè pour l’Histoire” che riprendeva il titolo dell’appello lanciato da Pierre Vidal Naquet (spero che nessuno abbia da ridire sull’antifascismo sia
del primo che del secondo). Il provvidenziale scioglimento anticipato
delle Camere giunse felicemente a seppellire l’infausta proposta del
noto militante antifascista Clemente Mastella.
Non mi pare che la sostanza del problema
sia mutata: questa è una legge liberticida, incostituzionale ed in
contrasto con la dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo. Infatti
essa è in conflitto con l’art. 21 Cost. che garantisce la libera
manifestazione del pensiero, con l’art. 33 che stabilisce che “L’arte e
la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento” e con l’art. 9,
sempre della Costit. per il quale la Repubblica “promuove lo sviluppo
della cultura” (incompatibile che ogni forma di censura); è anche in
conflitto con gli artt. 18 e 19 della dichiarazione universale dei
diritti dell’Uomo che garantiscono la libertà di espressione del
pensiero senza eccezioni.
Essa costituisce un pericolosissimo
precedente, per cui lo Stato avoca a sé la potestà di stabilire per
legge cosa sia scientificamente possibile dire e cosa no: potrebbe
essere applicato a qualsiasi scienza dalla medicina alla fisica. Ma,
qualcuno dirà, qui non parliamo di scienze sperimentali e/o naturali ma
di scienze umane e, più in particolare storico sociali. Allora
prepariamoci anche a stabilire per legge la verità su qualsiasi altro
avvenimento storico, anzi, a questo proposito, facciamo prima a varare
un testo unico che stabilisca quanto può esser detto e quanto no, magari
con apposita commissione di vigilanza.
Ma, ancora, si sosterrà che la legge
riguarda solo il caso della Shoa, in ragione della sua pretesa unicità:
essa rappresenta un unicum.
Un unicum? E che vuol dire?
Come ogni
mediocre studente di storia sa, ogni avvenimento storico è unico ed
irripetibile. Forse si vuol dire che la Shoa rappresenta un caso di
gravità unica? Ma su quali criteri stabiliamo che il genocidio ebraico,
dei rom, degli omosessuali, dei Testimoni di Geova o degli slavi (a
proposito: ci sono anche loro) perpetrato dai nazisti sia più grave del
genocidio degli armeni operato dai Turchi, dei delitti
dell’Inquisizione, dei massacri di Pol Pot in Cambogia, di quello di 10
milioni di congolesi compiuto da Leopoldo del Belgio? Ma, soprattutto,
cosa dimostra che meno grave sia stato il genocidio (ahimè riuscito, a
differenza degli altri) dei nativi di America perpetrato dai governi
liberali degli Usa?
Sul piano politico, questa norma è
offensiva non solo dei diritti di espressione dei negazionisti (che
personalmente ritengo essere delle bestie sul piano scientifico, ma che
comunque hanno diritti costituzionali anche loro), ma prima ancora è
offensiva dell’opera degli storici antifascisti, che si pensa abbiano
bisogno dei carabinieri per prevalere in una disputa scientifica. Che ne
pensano i colleghi Marina Cattaruzza, Marcello Flores, Simon Levi
Sullam, Enzo Traverso, Pier Paolo Poggio, Claudio Vercelli, autori di
saggi di grande valore sul tema? E ci aggiungo anche il mio vecchio
amico Brunello Mantelli, di cui conosco le opinioni contrarie alle mie
in merito, ma che farebbe bene anche lui a riflettere sul fatto che il
senso si questa legge è che il lavoro suo e di tutti quelli che ho
citato prima, non serve a niente e che, d’ora in poi, ci penseranno
questurini e magistrati a dare ai negazionisti quel che meritano. E che
il senso sia questo lo dice anche la mancata consultazione della Sissco.
Diciamoci le cose come stanno: qui la
memoria della Shoa, la rivendicazione del valore dell’anti fascismo ecc.
non c’entrano assolutamente nulla. Questo è solo un omaggio alla lobby
filo israeliana, che pensa (sbagliando, ahimè quanto!) di rafforzare in
questo modo le ragioni di Israele. Beninteso: da sempre sono un
sostenitore del diritto di Israele ad esistere, ma questo, non solo non
rafforza, ma indebolisce le sue ragioni: usare il massacro di milioni di
ebrei così strumentalmente è una profanazione del loro sacrificio.
Dunque, anche sul piano morale non credo
di poter condividere questa legge. Ed allora che ne pensa la Sissco di
tornare a far sentire la sua voce? E non sto parlando solo della pur
doverosa protesta formale del direttivo per non essere stata
interpellata prima l’associazione prima di iniziare l’iter legislativo. O
a un pur utile appello sottoscritto da quanti dei suoi soci vorranno
farlo. Penso a forme di protesta più incisive come, ad esempio, la
costituzione dell’omologo italiano di “Libertè pour l’Histoire”.
Per quanto mi riguarda, in caso di approvazione di questa legge ignobile, praticherò il metodo della disobbedienza civile: pubblicherò regolarmente sul mio blog i testi negazionisti (ovviamente seguiti dalla mia critica), ospiterò nel mio corso storici negazionisti che fossero disposti ad un confronto sulle rispettive tesi, ecc. e mi autodenuncerò per averlo fatto, al solo scopo di sollevare l’eccezione di incostituzionalità della norma.
Lo ritengo un mio dovere di storico anti
fascista, nella convinzione che l’antifascismo è prima di tutto una
battaglia di libertà. Rosa Luxemburg mi ha insegnato, quando ero
giovane, che “La libertà è sempre la libertà di chi la pensa
diversamente”.
Difendere il proprio punto di vista non è battersi per il
principio di libertà di pensiero ma, appunto, per il proprio punto di
vista. E’ solo difendendo e garantendo il diritto degli altri a poter
esprimere il proprio che si può dire di star facendo una battaglia di
libertà.
Sarebbe bello che anche la Sissco ricorresse a forme di disobbedienza civile del genere… ma forse è chiedere troppo.
Cordialmente
Aldo Giannuli.
Aldo Giannuli.
Pubblicata anche su Megachip: http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=89027&typeb=0&Contro-la-legge-sul-negazionismo.
17 ottobre 2013
Reato di negazionismo: gli storici lo rifiutano
Il
recente voto parlamentare sul "negazionismo", in pieno
revival di una potente campagna sui reati d'opinione, fa fare un
salto deleterio alla nostra Repubblica. Per sommo e aberrante
paradosso, una legge presuntamente antifascista è il nido in cui
farà l'uovo lo Stato
etico,
la tipica base liberticida e totalitaria del fascismo. Un fascismo di tipo nuovo, politically correct.
Dopo
tanti tentativi, contro i quali – come vedremo – c'è stata una
forte opposizione di tanti valenti storici antifascisti – anche in
Italia la repressione penale delle opinioni si è fatta strada in
Parlamento, con conseguenze esplosive. L’emendamento
approvato nella Commissione giustizia del Senato – relatrice la PD
Rosaria Capacchione – con i voti di PD, PDL, Scelta Civica, SEL e i
senatori Cappelletti e Gianrusso del M5S, prevede tre anni di
reclusione (sette anni e mezzo con le aggravanti) e multe fino a diecimila
euro da comminare a chi “nega
o minimizza crimini di genocidio” come ad esempio la Shoah.
L'idea
di contrastare con la legge penale le opinioni – per quanto
infondate e profondamente sbagliate – apre scenari pieni di
pericoli.
Legare
l'interpretazione della Storia a una legge penale sarebbe come
cristallizzare una conoscienza scientifica aperta al dibattito – ad
esempio le scoperte di Newton- in una norma sigillata dal dogma dello
Stato (e un domani di un governo o di un regime politico
contingente). Una volta aperto un varco così grande a questo modo di
procedere, potrebbero presentarsi abusi drammatici su ogni
interpretazione controversa degli eventi storici: la Storia è sempre
controversa. Un articolo
di Francesco Santoianni descrive con molta chiarezza vari casi di
arresti e condanne penali avvenuti negli ultimi anni in tutta Europa,
compreso il caso dell'austriaca Sylvia Stoltz, che fu condannata a
tre anni e mezzo di reclusione nell'esercizio della sua funzione di
avvocato difensore durante il processo a un “negazionista”.
Le norme qui in Italia non ci sono ancora, ma la tempesta sì: contro Piergiorgio Odifreddi, che si è dichiarato contrario all'approvazione della legge, è già in corso una campagna d'intensità maccartista. Molti di coloro che vorrebbero dire pubblicamente che Odifreddi deve potersi esprimere liberamente non lo faranno, perché il manganello mediatico fa già male. Figuriamoci il clima che avremo con un manganello penale.
Le norme qui in Italia non ci sono ancora, ma la tempesta sì: contro Piergiorgio Odifreddi, che si è dichiarato contrario all'approvazione della legge, è già in corso una campagna d'intensità maccartista. Molti di coloro che vorrebbero dire pubblicamente che Odifreddi deve potersi esprimere liberamente non lo faranno, perché il manganello mediatico fa già male. Figuriamoci il clima che avremo con un manganello penale.
Lo
storico Franco Cardini, nel 2009, scrisse un
articolo molto ricco di argomentazioni sui rischi di una legge
penale in materia. Tra queste, c'è un'argomentazione sottile e
importante:
«Cresce il numero di chi in pubblico afferma una cosa e in privato sostiene esattamente il contrario. E sapete perchè? Per il fatto che se ne perseguitano i sostenitori e che li si condanna senza dar loro il diritto di parlare e senza controbattere. Ma in questo modo si crea nell'opinione pubblica la crescente sensazione che se ne abbia paura, e che essi stiano dicendo cose vere: e, questo sì, può costituire la premessa a una nuova ondata di pregiudizio antisemita, anche se è difficile immaginare sotto quali forme potrebbe presentarsi.»
Le
motivazioni per opporsi a un simile provvedimento sono già state
formulate molto bene nel 2007 da molti
storici italiani (tra
cui molti studiosi con profonde radici familiari e intellettuali
nell'ebraismo italiano), quando si opposero fermamente all'allora
ministro della giustizia Clemente
Mastella,
che – fotocopie alla mano – voleva introdurre nel nostro
ordinamento una legge analoga alla francese Fabius-Gayssot. L'appello degli storici italiani è un documento di straordinaria
attualità, che condivido dalla prima all'ultima riga, e che propongo
qui sotto all'attenzione dei lettori.
Mentre
Giorgio Napolitano, fra una larga intesa e l'altra, esorta
sovranamente i parlamentari ad approvare
le nuove norme penali, i lettori potrebbero esortarli più
sovranamente ancora a non approvarle, consigliando loro di leggere
l'appello degli storici. Magari recapitandolo nelle loro caselle
e-mail.
Buona
lettura.
Contro il negazionismo
per la libertà di ricerca
Il Ministro della Giustizia Mastella,
secondo quanto anticipato dai media, proporrà un disegno di legge
che dovrebbe prevedere la condanna, e anche la reclusione, per chi
neghi l'esistenza storica della Shoah. Il governo Prodi dovrebbe
presentare questo progetto di legge il giorno della memoria.
Come storici e come cittadini siamo
sinceramente preoccupati che si cerchi di affrontare e risolvere un
problema culturale e sociale certamente rilevante (il
negazionismo e il suo possibile diffondersi soprattutto tra i
giovani) attraverso la pratica giudiziaria e la minaccia di
reclusione e condanna.
Proprio negli ultimi tempi, il
negazionismo è stato troppo spesso al centro dell'attenzione dei
media, moltiplicandone inevitabilmente e in modo controproducente
l’eco. Sostituire a una necessaria battaglia culturale, a una
pratica educativa, e alla tensione morale necessarie per fare
diventare coscienza comune e consapevolezza etica introiettata la
verità storica della Shoah, una soluzione basata sulla minaccia
della legge, ci sembra particolarmente pericoloso per diversi
ordini di motivi:
1) si offre ai negazionisti, com’è
già avvenuto, la possibilità di ergersi a difensori della
libertà d'espressione, le cui posizioni ci si rifiuterebbe di
contestare e smontare sanzionandole penalmente.
2) si stabilisce una verità di
Stato in fatto di passato storico, che rischia di delegittimare
quella stessa verità storica, invece di ottenere il risultato
opposto sperato. Ogni verità imposta dall'autorità statale
(l'«antifascismo»
nella DDR, il socialismo nei regimi comunisti, il negazionismo del
genocidio armeno in Turchia, l'inesistenza di piazza Tiananmen in
Cina) non può che minare la fiducia nel libero confronto di
posizioni e nella libera ricerca storiografica e intellettuale.
3) si accentua l'idea, assai discussa
anche tra gli storici, della "unicità della Shoah",
non in quanto evento singolare, ma in quanto incommensurabile e non
confrontabile con ogni altri evento storico, ponendolo di fatto al
di fuori della storia o al vertice di una presunta classifica dei
mali assoluti del mondo contemporaneo.
L'Italia, che ha ancora tanti
silenzi e tante omissioni sul proprio passato coloniale,
dovrebbe impegnarsi a favorire con ogni mezzo che la storia recente e
i suoi crimini tornino a far parte della coscienza collettiva,
attraverso le più diverse iniziative e campagne educative.
La strada della verità storica di
Stato non ci sembra utile per contrastare fenomeni, molto spesso
collegati a dichiarazioni negazioniste (e certamente pericolosi e
gravi), di incitazione alla violenza, all'odio razziale, all'apologia
di reati ripugnanti e offensivi per l'umanità; per i quali esistono
già, nel nostro ordinamento, articoli di legge sufficienti a
perseguire i comportamenti criminali che si dovessero manifestare
su questo terreno.
È la società civile,
attraverso una costante battaglia culturale, etica e politica, che
può creare gli unici anticorpi capaci di estirpare o almeno
ridimensionare ed emarginare le posizioni negazioniste. Che lo Stato
aiuti la società civile, senza sostituirsi ad essa con una legge che
rischia di essere inutile o, peggio, controproducente.
Marcello Flores, Università di
Siena
Simon Levis Sullam, Università di California, Berkeley
Enzo Traverso, Università de Picardie Jules Verne
David Bidussa, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Bruno Bongiovanni, Università di Torino
Simona Colarizi, Università di Roma La Sapienza
Gustavo Corni, Università di Trento
Alberto De Bernardi, Università di Bologna
Tommaso Detti, Università di Siena
Anna Rossi Doria, Università di Roma Tor Vergata
Maria Ferretti, Università della Tuscia
Umberto Gentiloni, Università di Teramo
Paul Ginsborg, Università di Firenze
Carlo Ginzburg, Scuola Normale Superiore, Pisa
Giovanni Gozzini, Università di Siena
Andrea Graziosi, Università di Napoli Federico II
Mario Isnenghi, Università di Venezia
Fabio Levi, Università di Torino
Giovanni Levi, Università di Venezia
Sergio Luzzatto, Università di Torino
Paolo Macry, Università di Napoli Federico II
Giovanni Miccoli, Università di Trieste
Claudio Pavone, storico
Paolo Pezzino, Università di Pisa
Alessandro Portelli, Università di Roma La Sapienza
Gabriele Ranzato, Università di Pisa
Raffaele Romanelli, Università di Roma La Sapienza
Mariuccia Salvati, Università di Bologna
Stuart Woolf, Istituto Universitario Europeo, Firenze
Aderiscono anche:
Cristina Accornero, Università di Torino
Ersilia Alessandrone Perona
Franco Andreucci, Università di Pisa
Franco Angiolini, Università di Pisa
Barbara Armani, Università di Pisa
Angiolina Arru, Università di Napoli L'Orientale
Marino Badiale, Universita' di Torino
Elena Baldassari, Università di Roma La Sapienza
Luca Baldissara, Università di Pisa
Roberto Balzani, Università di Bologna
Giovanni Belardelli, Università di Perugia
Elissa Bemporad, Center for Jewish History, New York
Emmanuel Betta, Università di Roma La Sapienza
Fabio Bettanin, Università di Napoli L’Orientale
Roberto Bianchi, Università di Firenze
Alfonso Botti, Università di Urbino
Anna Bravo, Università di Torino
Camillo Brezzi, Università di Siena
Antonio Brusa, Università di Bari
Marco Buttino, Università di Torino
Davide Cadeddu, Università di Milano
Gia Caglioti, Università di Napoli Federico II
Luigi Cajani, Università di Roma La Sapienza
Giampaolo Calchi Novati, Università di Pavia
Marina Calloni, Università di Milano Bicocca
Fulvio Cammarano, Università di Bologna
Alfredo Canavero, Università degli Studi di Milano
Leonardo Capezzone, Università di Roma La Sapienza
Riccardo Caporale
Vittorio Cappelli, Università della Calabria
Paolo Capuzzo
Franco Cardini, Università di Firenze
Maddalena Carli, Università di Teramo
Paola Carlucci, Scuola Normale Superiore Pisa
Gennaro Carotenuto, Università di Macerata
Paola Carucci
Carolina Castellano, Università di Napoli Federico II
Mirella Castracane Mombelli, SSAB
Sonia Castro, Università di Pavia
Tulla Catalan, Università di Trieste
Alberto Cavaglion, Università di Milano
Franco Cazzola, Università di Firenze
Roberto Chiarini, Università di Milano
Giovanna Cigliano, Università di Napoli Federico II
Fulvio Conti, Università di Firenze
Giovanni Contini, Università di Roma La Sapienza
Daniele Conversi, University of Lincoln
Pietro Costa, Università di Firenze
Augusto D’Angelo, Università di Roma La Sapienza
Leandra D’Antone, Università di Roma La Sapienza
Angelo D’Orsi, Università di Torino
Vanni D'Alessio, Università di Napoli Federico II
Fulvio De Giorgi
Giovanni De Luna, Università di Torino
Andreina De Clementi, Università di Napoli L'Orientale
Fabio Dei, Università di Pisa
Mario Del Pero, Università di Bologna
Nunzio Dell’Erba, Università di Torino
Giorgio Delle Donne, Bolzano
Lucia Denitto, Università di Lecce
Giulia Devani,
Paola Di Cori, Università di Urbino
Patrizia Dogliani, Università di Bologna
Benito Donato, Cosenza
Elena Fasano Guarini, Università di Pisa
Paolo Favilli, Università di Genova
Giovanni Federico, Università di Pisa
Carlotta Ferrara degli Uberti
Cristiana Fiamingo, Università di Milano
Enzo Fimiani, Biblioteca provinciale Pescara
Vinzia Fiorino, Università di Pisa
Guido Formigoni, Università di Milano IULM
Vittorio Frajese, Università di Roma Tor Vergata
Giulia Fresca, Cosenza
Carlo Fumian, Università di Padova
Valeria Galimi, Università di Siena
Ernesto Galli della Loggia, Università di Milano San Raffaele
Luigi Ganapini, Università di Bologna
Antonella Gedda
Giuliana Gemelli, Università di Bologna
Aldo Giannuli, Università di Bari
Antonio Gibelli, Università di Genova
Maria Grazia Meriggi, Università di Bergamo
Gabriella Gribaudi, Università di Napoli Federico II
Yuri Guaiana, Università di Milano Bicocca
Giancarlo Jocteau, Università di Torino
Stefano Levi della Torre
Sara Lorenzini, Università di Trento
Domenico Losurdo, Università di Urbino
Paola Magnarelli, Università di Macerata
Maria Marcella Rizzo, Università di Lecce
Filippo Maria Giordano, Pavia
Gian Maria Varanini, Università di Verona
Rosaria Marina Arena, Università di Siena
Marcella Marmo, Università di Napoli Federico II
Dora Marucco, Università di Torino
Massimo Mastrogregori, Università di Roma La Sapienza
Marco Mayer, Università di Firenze
Claudio Mellana, Torino
Annalucia Messina
Marica Milanesi, Università di Pavia
Claudio Moffa
Marco Mondini, Università di Padova
Davide Montino, Università di Genova
Daniele Montino, Università di Genova
Giovanni Montroni, Università di Napoli Federico II
Massimo Morigi
Antonio Moscato
Stefania Nanni, Università di Roma La Sapienza
Gloria Nemec, Università di Trieste
Giacomina Nenci, Università di Perugia
Serge Noiret
Ivar Oddone, Torino
Chiara Ottaviano, Cliomedia Officina
Maura Palazzi, Università di Ferrara
Gianni Perona, INSMLI, Milano
Francesco Petrini
Stefano Petrungaro, Università di Venezia
Vincenzo Pinto, Università di Torino-Gerusalemme
Francesco Piva, Università di Roma Tor Vergata
Stefano Pivato, Università di Urbino
Alessandro Pizzorno, Istituto Universitario Europeo Firenze
Regina Pozzi, Università di Pisa
Adriano Prosperi, Scuola Normale Superiore di Pisa
Leonardo Rapone, Università della Tuscia
Maurizio Ridolfi, Università della Tuscia
Gabriele Rigano, Università per Stranieri di Perugia
Domenico Rizzo, Università di Napoli L’Orientale
Giorgio Rochat, Università di Torino
Giovanni Romeo, Università di Napoli Federico II
Maria Rosaria Stabili, Università di Roma III
Andrea Rossi, Istituto di storia contemporamea, Ferrara
Rodolfo Rossi, Università cattolica del Sacro Cuore, Brescia
Lucia Rostagno, Università di Roma La Sapienza
Piero S. Graglia
Silvia Salvatici, Università di Teramo
Enrica Salvatori, Università di Pisa
Sara Sappino, Università di Pavia
Ayse Saracgil, Università di Firenze
Laura Savelli, Università di Pisa
Biancamaria Scarcia Amoretti, Università di Roma La Sapienza
Guri Schwarz, Università di Pisa
Giovanni Scirocco, Università di Bergamo
Francesco Scomazzon, Università di Milano
Maria Serena Piretti, Università di Bologna
Alfio Signorelli, Università di Roma La Sapienza
Francesca Socrate, Università di Roma La Sapienza
Simonetta Soldani, Università di Firenze
Carlotta Sorba, Università di Padova
Carlo Spagnolo, Università di Bari
Lorenzo Strik Lievers, Università di Milano Bicocca
Maria Susanna Garroni, Università di Napoli "L'Orientale"
Arnaldo Testi, Università di Pisa
Rita Tolomeo, Università di Roma La Sapienza
Cristiana Torti
Francesco Traniello, Università di Torino
Anna Treves, Università di Milano
Alessandro Triulzi, Università di Napoli L’Orientale
Simona Troilo, Istituto Universitario Europeo
Gabriele Turi, Università di Firenze
Angelo Ventrone
Angelo Ventura, Università di Padova
Claudio Venza, Università di Trieste
Alessandra Veronese, Università di Pisa
Elisabetta Vezzosi, Università di Trieste
Vittorio Vidotto, Università di Roma La Sapienza
Loris Zanatta, Università di Bologna
Bruno Ziglioli, Università di Pavia
Simon Levis Sullam, Università di California, Berkeley
Enzo Traverso, Università de Picardie Jules Verne
David Bidussa, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Bruno Bongiovanni, Università di Torino
Simona Colarizi, Università di Roma La Sapienza
Gustavo Corni, Università di Trento
Alberto De Bernardi, Università di Bologna
Tommaso Detti, Università di Siena
Anna Rossi Doria, Università di Roma Tor Vergata
Maria Ferretti, Università della Tuscia
Umberto Gentiloni, Università di Teramo
Paul Ginsborg, Università di Firenze
Carlo Ginzburg, Scuola Normale Superiore, Pisa
Giovanni Gozzini, Università di Siena
Andrea Graziosi, Università di Napoli Federico II
Mario Isnenghi, Università di Venezia
Fabio Levi, Università di Torino
Giovanni Levi, Università di Venezia
Sergio Luzzatto, Università di Torino
Paolo Macry, Università di Napoli Federico II
Giovanni Miccoli, Università di Trieste
Claudio Pavone, storico
Paolo Pezzino, Università di Pisa
Alessandro Portelli, Università di Roma La Sapienza
Gabriele Ranzato, Università di Pisa
Raffaele Romanelli, Università di Roma La Sapienza
Mariuccia Salvati, Università di Bologna
Stuart Woolf, Istituto Universitario Europeo, Firenze
Aderiscono anche:
Cristina Accornero, Università di Torino
Ersilia Alessandrone Perona
Franco Andreucci, Università di Pisa
Franco Angiolini, Università di Pisa
Barbara Armani, Università di Pisa
Angiolina Arru, Università di Napoli L'Orientale
Marino Badiale, Universita' di Torino
Elena Baldassari, Università di Roma La Sapienza
Luca Baldissara, Università di Pisa
Roberto Balzani, Università di Bologna
Giovanni Belardelli, Università di Perugia
Elissa Bemporad, Center for Jewish History, New York
Emmanuel Betta, Università di Roma La Sapienza
Fabio Bettanin, Università di Napoli L’Orientale
Roberto Bianchi, Università di Firenze
Alfonso Botti, Università di Urbino
Anna Bravo, Università di Torino
Camillo Brezzi, Università di Siena
Antonio Brusa, Università di Bari
Marco Buttino, Università di Torino
Davide Cadeddu, Università di Milano
Gia Caglioti, Università di Napoli Federico II
Luigi Cajani, Università di Roma La Sapienza
Giampaolo Calchi Novati, Università di Pavia
Marina Calloni, Università di Milano Bicocca
Fulvio Cammarano, Università di Bologna
Alfredo Canavero, Università degli Studi di Milano
Leonardo Capezzone, Università di Roma La Sapienza
Riccardo Caporale
Vittorio Cappelli, Università della Calabria
Paolo Capuzzo
Franco Cardini, Università di Firenze
Maddalena Carli, Università di Teramo
Paola Carlucci, Scuola Normale Superiore Pisa
Gennaro Carotenuto, Università di Macerata
Paola Carucci
Carolina Castellano, Università di Napoli Federico II
Mirella Castracane Mombelli, SSAB
Sonia Castro, Università di Pavia
Tulla Catalan, Università di Trieste
Alberto Cavaglion, Università di Milano
Franco Cazzola, Università di Firenze
Roberto Chiarini, Università di Milano
Giovanna Cigliano, Università di Napoli Federico II
Fulvio Conti, Università di Firenze
Giovanni Contini, Università di Roma La Sapienza
Daniele Conversi, University of Lincoln
Pietro Costa, Università di Firenze
Augusto D’Angelo, Università di Roma La Sapienza
Leandra D’Antone, Università di Roma La Sapienza
Angelo D’Orsi, Università di Torino
Vanni D'Alessio, Università di Napoli Federico II
Fulvio De Giorgi
Giovanni De Luna, Università di Torino
Andreina De Clementi, Università di Napoli L'Orientale
Fabio Dei, Università di Pisa
Mario Del Pero, Università di Bologna
Nunzio Dell’Erba, Università di Torino
Giorgio Delle Donne, Bolzano
Lucia Denitto, Università di Lecce
Giulia Devani,
Paola Di Cori, Università di Urbino
Patrizia Dogliani, Università di Bologna
Benito Donato, Cosenza
Elena Fasano Guarini, Università di Pisa
Paolo Favilli, Università di Genova
Giovanni Federico, Università di Pisa
Carlotta Ferrara degli Uberti
Cristiana Fiamingo, Università di Milano
Enzo Fimiani, Biblioteca provinciale Pescara
Vinzia Fiorino, Università di Pisa
Guido Formigoni, Università di Milano IULM
Vittorio Frajese, Università di Roma Tor Vergata
Giulia Fresca, Cosenza
Carlo Fumian, Università di Padova
Valeria Galimi, Università di Siena
Ernesto Galli della Loggia, Università di Milano San Raffaele
Luigi Ganapini, Università di Bologna
Antonella Gedda
Giuliana Gemelli, Università di Bologna
Aldo Giannuli, Università di Bari
Antonio Gibelli, Università di Genova
Maria Grazia Meriggi, Università di Bergamo
Gabriella Gribaudi, Università di Napoli Federico II
Yuri Guaiana, Università di Milano Bicocca
Giancarlo Jocteau, Università di Torino
Stefano Levi della Torre
Sara Lorenzini, Università di Trento
Domenico Losurdo, Università di Urbino
Paola Magnarelli, Università di Macerata
Maria Marcella Rizzo, Università di Lecce
Filippo Maria Giordano, Pavia
Gian Maria Varanini, Università di Verona
Rosaria Marina Arena, Università di Siena
Marcella Marmo, Università di Napoli Federico II
Dora Marucco, Università di Torino
Massimo Mastrogregori, Università di Roma La Sapienza
Marco Mayer, Università di Firenze
Claudio Mellana, Torino
Annalucia Messina
Marica Milanesi, Università di Pavia
Claudio Moffa
Marco Mondini, Università di Padova
Davide Montino, Università di Genova
Daniele Montino, Università di Genova
Giovanni Montroni, Università di Napoli Federico II
Massimo Morigi
Antonio Moscato
Stefania Nanni, Università di Roma La Sapienza
Gloria Nemec, Università di Trieste
Giacomina Nenci, Università di Perugia
Serge Noiret
Ivar Oddone, Torino
Chiara Ottaviano, Cliomedia Officina
Maura Palazzi, Università di Ferrara
Gianni Perona, INSMLI, Milano
Francesco Petrini
Stefano Petrungaro, Università di Venezia
Vincenzo Pinto, Università di Torino-Gerusalemme
Francesco Piva, Università di Roma Tor Vergata
Stefano Pivato, Università di Urbino
Alessandro Pizzorno, Istituto Universitario Europeo Firenze
Regina Pozzi, Università di Pisa
Adriano Prosperi, Scuola Normale Superiore di Pisa
Leonardo Rapone, Università della Tuscia
Maurizio Ridolfi, Università della Tuscia
Gabriele Rigano, Università per Stranieri di Perugia
Domenico Rizzo, Università di Napoli L’Orientale
Giorgio Rochat, Università di Torino
Giovanni Romeo, Università di Napoli Federico II
Maria Rosaria Stabili, Università di Roma III
Andrea Rossi, Istituto di storia contemporamea, Ferrara
Rodolfo Rossi, Università cattolica del Sacro Cuore, Brescia
Lucia Rostagno, Università di Roma La Sapienza
Piero S. Graglia
Silvia Salvatici, Università di Teramo
Enrica Salvatori, Università di Pisa
Sara Sappino, Università di Pavia
Ayse Saracgil, Università di Firenze
Laura Savelli, Università di Pisa
Biancamaria Scarcia Amoretti, Università di Roma La Sapienza
Guri Schwarz, Università di Pisa
Giovanni Scirocco, Università di Bergamo
Francesco Scomazzon, Università di Milano
Maria Serena Piretti, Università di Bologna
Alfio Signorelli, Università di Roma La Sapienza
Francesca Socrate, Università di Roma La Sapienza
Simonetta Soldani, Università di Firenze
Carlotta Sorba, Università di Padova
Carlo Spagnolo, Università di Bari
Lorenzo Strik Lievers, Università di Milano Bicocca
Maria Susanna Garroni, Università di Napoli "L'Orientale"
Arnaldo Testi, Università di Pisa
Rita Tolomeo, Università di Roma La Sapienza
Cristiana Torti
Francesco Traniello, Università di Torino
Anna Treves, Università di Milano
Alessandro Triulzi, Università di Napoli L’Orientale
Simona Troilo, Istituto Universitario Europeo
Gabriele Turi, Università di Firenze
Angelo Ventrone
Angelo Ventura, Università di Padova
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10 ottobre 2013
Il Nobel a Higgs & C. Quando il vuoto è pieno
Il Premio Nobel per la Fisica 2013 è stato assegnato ai fisici Higgs e Englert per la loro previsione teorica, datata 1962, del cosiddetto "Bosone di Higgs", una particella elementare evidenziata sperimentalmente per la prima volta la scorsa primavera al CERN, con il grande contributo di molti fisici italiani. Qual è il senso profondo di tale scoperta, solo apparentemente esotica? Lo hanno spiegato qualche mese prima del Nobel, sulle pagine di Left, i fisici Vitiello e del Giudice. Riproponiamo anche qui il loro splendido articolo. Buona lettura.
La Redazione di Megachip.
Fisica. Quando il vuoto è pieno
di Emilio del Giudice e Giuseppe Vitiello - Left, 25 - 29 giugno 2013
Dalla nascita della fisica quantistica, agli inizi del ’900, alla recente scoperta del bosone di Higgs. Oggi la materia non è più concepita come inerte. Ed è un vero cambio di paradigma. Che curiosamente ha radici antiche.
La scoperta nel 2012 del cosiddetto “bosone di Higgs” è stata un evento di grande importanza nella storia della fisica contemporanea, il coronamento di uno sforzo tecnologico di grande complessità. L’aspetto che vogliamo qui sottolineare è che questa scoperta conferma la validità di uno schema concettuale che ha rivoluzionato la nostra visione della natura.
Questo approccio rivoluzionario alla comprensione della natura è cominciato agli inizi del ’900 con la nascita della fisica quantistica. La materia non era più concepita come inerte, come un insieme di corpi indipendenti, in principio isolabili gli uni dagli altri. La novità è che ogni oggetto fisico, sia esso un corpo materiale o un campo di forze, è intrinsecamente fluttuante in modo spontaneo anche in assenza di forze esterne. Il suo stato di minima energia, chiamato “vuoto” nel gergo dei fisici, non è perciò più lo stato in cui a causa dell’assenza di forze esterne c’è un vuoto di energia, ma è lo stato “pieno” delle fluttuazioni spontanee dell’oggetto dato.
Già nel 1916 Walther Nerst, uno dei pionieri del nuovo punto di vista, avanzò l’ipotesi che le fluttuazioni quantistiche in oggetti fisici differenti potessero sintonizzarsi tra di loro dando così luogo a sistemi complessi aventi un comportamento unitario. Questa possibilità faceva cadere il requisito fondamentale della fisica classica dell’isolabilità dei corpi. Cadeva il “pregiudizio ontologico” che afferma che le cose possano esistere “di per sé”, indipendenti le une dalle altre.
Nella teoria quantistica dei campi l’energia si presenta in granuli o “quanti di energia” e non si studia un numero fissato di atomi o particelle, ma un numero indefinito di quanti mutuamente interagenti e caratterizzati da un ritmo oscillatorio chiamato “fase” nel gergo dei fisici.
Il fondamentale principio d’indeterminazione stabilisce che il prodotto delle incertezze sul numero dei quanti e sulla fase del campo, sempre esistenti a causa delle fluttuazioni quantistiche, non può essere zero, ma deve essere sempre uguale o più grande di una costante universale. Questo vuol dire che quando l’incertezza sul numero dei quanti è nulla, la fase diventa totalmente indeterminata, come se la “musica” del campo, nel senso del vecchio Pitagora, divenisse non udibile. Viceversa, insistendo sulla metafora della musica, la musicalità del campo, emerge solo quando il numero dei quanti diventa indefinito.
Molti aspetti della filosofia classica antica appaiono nella struttura concettuale quantistica, in particolare l’intuizione di Epicuro, ripresa da Lucrezio nel De rerum natura, sulla fluttuabilità spontanea dei corpi e sulla accoppiabilità delle fluttuazioni come origini dei sistemi materiali complessi. E' stato riconosciuto che le variazioni spaziali e temporali della fase dei sistemi fisici danno origine a campi specifici, chiamati “campi di gauge”, i cui quanti sono scambiati dai sistemi, agendo in tal modo da mediatori nelle loro interazioni (accoppiamenti) e in definitiva trasmettendo le fluttuazioni di ogni sistema agli altri sistemi.
Questa dinamica unificante deve misurarsi con una dinamica opposta, potenzialmente dissolvente, generata dagli urti tra i componenti del sistema. Ad alta temperatura gli urti sono così violenti da impedire alle fluttuazioni spontanee dei corpi di produrre una musica coerente complessiva. A bassa temperatura invece esiste la possibilità che le fluttuazioni quantistiche diano luogo a una fluttuazione collettiva unitaria dell’insieme dei componenti, che acquista perciò una sua, possiamo dire, forma espressiva, un suo linguaggio che esprime la funzione di quella struttura materiale data.
Torniamo al bosone di Higgs. Come tutti i quanti esso si manifesta come particella e in forma di campo ondulatorio e porta in sé il contributo di cui il vuoto quantistico permea, con la ricchezza delle sue fluttuazioni, lo spazio e il tempo.
Esso è quindi al tempo stesso particella e agente collettivo che permette a tutti gli altri quanti di condividere la ricchezza del vuoto. Da questa condivisione trae origine la massa dell’elettrone, di quei campi di gauge che in tal modo si materializzano nelle particelle W e nella Z scoperte agli inizi degli anni 80 da Rubbia e collaboratori e ancora di altre particelle.
Fino all’anno scorso questo meccanismo (detto di Higgs) non faceva parte della “evidence based science”, apparteneva all’invisibile che è parte essenziale di una profonda verità scientifica. Come diceva Einstein: «La natura ama nascondersi», per cui l’invisibile diventa visibile solo quando la natura è interrogata in modo profondo, andando oltre l’apparenza.
«Se la realtà coincidesse con l’apparenza, non vi sarebbe bisogno della scienza», scrisse Carlo Marx. La rivoluzione di Galileo ebbe luogo quando l’“invisibile” principio di inerzia entrò in urto con l’“evidence based” modello tolemaico, perfettamente in grado di descrivere l’apparenza dei fenomeni, il “know how”, ma non in grado di spiegarne la dinamica, cioè il “know why”.
La scoperta dell’Higgs corrobora lo schema quantistico d’interazione e la nascita conseguente di sistemi complessi aventi una funzione unitaria specifica, inseparabile dalla struttura materiale.
Essa accoglie in pieno la richiesta del pensiero sistemico che rifiuta l’idea di parti indipendenti (si vedano a tal proposito i nostri due capitoli nel volume Strutture di Mondo a cura di Lucia Ulivi Urbani, pubblicato nel 2010 dal Mulino) ed è promossa al dominio del visibile tutta la concezione fisica fondata sulla teoria quantistica dei campi, che, d’altra parte, è alla base anche della fisica della materia condensata costruita a partire dagli atomi e dalle molecole.
Anche in questo contesto, si osserva, quando la temperatura è minore di un valore critico e la densità (numero di molecole per unità di volume) eccede una soglia, che le molecole perdono la loro individualità ed emerge la fisica dell’oscillazione collettiva coerente del campo di gauge, il campo elettromagnetico intrappolato nella materia, capace di governare i movimenti delle molecole accoppiate con esso in modo non casuale. In questo quadro è stata formulata una teoria dell’acqua liquida, cui ha dato un grosso contributo Giuliano Preparata. E qui l’orizzonte d’indagine si allarga fino a includere la fase vivente della materia, quella degli organismi biologici di cui l’acqua è il componente più abbondante, e che presenta la forma più alta e più complessa della proprietà di coerenza, capace di tradurre l’informazione in significato: essa richiede che la musica del campo elettromagnetico non sia un rumore caotico, ma abbia un ritmo ben definito.
Recentemente il Nobel Luc Montagnier ha annunciato che i segnali elettromagnetici emessi da frammenti di Dna sospesi in acqua sono capaci di rigenerare gli stessi frammenti in un altro recipiente in cui siano presenti, disciolti in acqua, gli ingredienti chimici che formano il Dna. Questi segnali presentano una struttura frattale, armoniosa nel suo ripetersi in forme similari. Essi sembrano presentare una struttura musicale; esistono cioè “accordi tra le note” costituenti i segnali.
Siamo forse alle soglie di una “rivoluzione di Higgs” anche in biologia? Forse la visione del mondo forzosamente imprigionato nell’antinomia caso-necessità dovrà cedere di fronte alla visione del mondo fondata sull’armonia delle musiche interiori dei suoi componenti. Come preconizzava Marx, il regno della necessità dovrà cedere il passo al regno della libertà.
Fonte: http://www.left.it/2013/06/27/fisica-quando-il-vuoto-e-pieno/11112.
Tratto da: http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=88180&typeb=0&Loid=315&Il-Nobel-a-Higgs--C-Quando-il-vuoto-e-pieno.
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Nick Cave and the Bad Seeds- Higgs Boson Blues
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